Gardenia, Marzo 2008
Lo ha dimostrato Werner Heisenberg, teorico della fisica dei quanti: se osservata, una particella muta linea d’azione. Impossibile scoprire come si comporta quando non la guardiamo. Mi sono sentita tal quale nell’apprendere che Andrew Lawson, habitué del principe Carlo, avrebbe fotografato il mio giardino. Sarebbe rimasto deluso? Temevo l’esame, mi davo della vile. Lawson era atteso in aprile, mese bellissimo, in spaventoso anticipo però su fioriture canoniche come peonie, rose, viburni, gelsomini… Imprevedibile aprile! Di solito è ancora nel suo momento di gloria la pergolina alla francese di Clematis armandii, per il resto il pezzo forte del mese è l’erba.
Grandi nuvole d’erba ricamate di fiori di campo, che ondeggiano fresche e smeraldine al soffio ora gentile, ora prepotente del vento. Tra quelle nuvole d’erba, e in quel cielo sbirciato attraverso le fioriture dei ciliegi, io mi sento perfettamente felice. Bastavano a giustificare un viaggio dall’Inghilterra? La mia erba è forse più verde di quella del vicino? Non tremare, mi dicevo, ma anche: che smacco, dovesse venire fuori che i giardini degli scrittori di giardini sono altrettanto malmessi delle scarpe dei figli dei calzolai! E poi, quei maledetti punti focali! Mi ero sentita vendicata quando, nei diari di Lev Tolstoj, avevo letto che panorami e punti focali erano roba da inglesi (appunto!) mentre a lui, con la sua anima di riccio, piaceva sentirsi immerso nella natura, in totale assenza di prospettive spettacolari, godendo semmai al pensiero che contro la guancia gli strusciavano foglie identiche a quelle verdeggianti sul monte di fronte. Ma si può forse fotografare una sensazione del genere, rendere una sensibilità tanto diversa da quella classica, che esige geometrie, architetture? No, dovevo fare qualcosa. Senza tradire la mia poetica, l’avrei però fatta risaltare più chiara, trovando il modo di rendere fotogenica non solo l’erba, ma addirittura le erbacce! Ho perlustrato il giardino in lungo e in largo, prendendo nota di ogni possibile difficoltà di ripresa. E anche di un’infinità di pecche il cui rimedio rimandavo da tempo.
Per esempio, quei rubinetti su orribili colonnine bianche: facile rimuoverli dalla percezione, come evitare però che si imprimano sulla pellicola? Ed eccomi, con barattolo e pennello, a tinteggiare di un delicato ruggine in dolce contrasto col verde dell’erba. Già, l’erba! L’avrei tagliata più spesso, nei sentieri, in modo da non soffocarla col suo stesso sfalcio. E le erbacce? D’aprile non sono poi così minacciose: fitolacca e lappa spuntano appena, i tassi barbassi cominciano a innalzare le spighe. Un poco però bisognava curarle, sfalciare tutto intorno — ma non troppo, quel minimo da distinguerle — così da far risaltare il loro potenziale di ornamentali ancorché spontanee. Piccole cose, ma tutte insieme: ore e ore di lavoro.
Ed ecco infine il grande giorno: Andrew Lawson si presenta a colazione accompagnato dall’adorata Briony e dal suo agente. Col tempo, una fortuna sfacciata: quel cielo terso, luminoso e rasserenante, che arriva solo dopo che un vigoroso acquazzone ha spazzato via settimane di mosce grisaglie. La casa e il giardino sfoggiano il più accattivante dei sorrisi.
A tavola, nella loggia
Servo come antipasto fave appena colte insieme al baccellone (un formaggio chiamato così perché si accompagna con le fave dette anche baccelli) e poi una zuppa alla lucchese preparata anche quella con ingredienti amorevolmente cresciuti nell’orto: bietole, cavolo verza, cavolo nero, carote, porri, patate, zucca, cipolle, zucchini e fagiolini (colti e congelati a fine autunno) il tutto immerso in una vellutata di fagioli scritti e cannellini. Il buon umore ci accompagna anche nella passeggiata in giardino. Mi sono accorta, dopo tante visite, che l’itinerario migliore inizia dalla porta a vetri sul retro della cucina, così da imbattersi subito nella curva sinuosa, direi materna, delle due grandi colline, quasi numi tutelari, affettuosamente incombenti sul podere in leggero declivio. La cucina si affaccia sull’unica zona davvero formale: la disegnò per me, in un gesto di amichevole benvenuto nel mondo dei giardinieri- mani-sporche-di-terra, Paul Gervais (vedere Gardenia n. 277, pag. 80). Con un pizzico di saggezza, avrei potuto attenermi alle indicazioni di Paul: lasciare dialogare quel poco di giardino formale con la campagna circostante. In quel modo avrei concentrato tempo ed energie in quel grazioso quadretto, con le aiuole di bosso, le bordure di santoline rosmarini lavande cisti e perovskie, i due meli cotogni, il vialetto tra le splendide rose rugose ‘Blanc Double de Coubert’ (purtroppo defunte appena un lustro dopo) con approdo alla panchina ombreggiata dall’olivo russo (Elaeagnus angustifolia). Il resto, sarebbe rimasto com’era: un podere dove, anni prima, avevano estirpato le vigne, lasciando soltanto un paio di fichi, un vecchio pero, un leccio e un bagolaro spuntati forse di testa loro, e dove avrei potuto limitarmi a un paio di sfalci l’anno.
Il bello del fieno fiorito
Eccoci poi nell’oliveto, trapunta d’argento sul prato fiorito, da lì nel giovane bosco di frassini, tigli, querce, ontani e alberi di Giuda, delimitato da un filare di cipressi e da una siepe che più mista non si potrebbe. Siamo arrivati fino al limite estremo del Bosco occidentale, bordato da sanguinelle, cornioli, rose canine e castagni nella mezz’ombra di una collinetta di pini. Tornando verso casa, pregustavo il Bosco orientale che, nascosto rispetto alla casa, coglie tutti di sorpresa. Mi piace invitare gli ospiti attraverso la stretta apertura nell’alto muro di allori. Da lì si apre la vista sullo stagno. È un po’ come affacciarsi su un sunken garden, un giardino affossato accogliente come un grembo, punto di confluenza delle acque piovane. Qui il bosco è più maturo. Ci sono sughere, querce e aceri di dimensioni già ragguardevoli, e nella radura una chiazza in diagonale di cisti e di rose, tracciata per rompere la monotonia della divisione originaria in due campi, poi attenuatasi man mano che il bosco prendeva forma. Le rose e i cisti non erano ancora fioriti, ninfee e loto meno che mai, eppure grazie alla bella giornata lì alitava ugualmente qualcosa di fresco e sorgivo.
Effetto forse delle tenere foglie appena schiuse, o del tono particolarmente luminoso del tappeto di muschiosa saggina di fronte al piccolo Buddha birmano in riva allo stagno. Dove gli ammassi gelatinosi delle uova di rane e rospi, trasparenti e punteggiati di nero, trasmettevano una sensazione come di brodo primario.
Che sollievo! Il primo impatto prometteva bene. Ero riuscita in qualche modo a comunicare come avevo inteso il giardino: un luogo di semplicità estrema, capace di trasmettere un senso sommesso di felicità. Un luogo dove, prima di tutto, si sta bene, dove le consuete manie giardinesche — le collezioni botaniche, le potature perfette, i prati immacolati — sono decisamente assenti.
Qualche foto è stata scattata il primo giorno, il lavoro vero è tuttavia iniziato l’indomani. Mi sveglio presto, apro la finestra ed ecco Andrew Lawson già all’opera, fin dall’alba forse, col cavalletto quasi nascosto dall’erba folta e l’inseparabile basco in testa. Ho resistito alla tentazione di immortalarlo.
Mi sarebbe parso di violare l’intimità della sua ispirazione. Di nascosto, tuttavia, restavo a guardarlo: era emozionante rendersi conto di quanto fosse appassionato del suo lavoro, capace di ascoltare e recepire la bellezza della natura con freschezza mai appannata. Per non disturbarlo, lo osservavo da lontano, senza fare rumore: chino sullo stagno, intento a inquadrare la siepe di rosmarini intrecciata al gelsomino, seduto sotto la nuova pergola a croce non ancora del tutto coperta dai glicini. Oppure nell’orto, che avevo ripulito di fresco perché, a furia di praticare la non azione, gramigna e potentilla avevano rialzato la testa, incuranti della paglia sparsa sulle aiuole, che a quanto pareva non aveva minimamente impedito loro di stolonare tenaci tra le zolle. Per tutto marzo, armata di forcone a quattro punte, avevo smosso la terra lasciata un po’ troppo in pace negli ultimi due o tre anni, per tirare via quei lunghissimi filamenti ora eburnei, ora bruni. Già che c’ero, avevo ripreso la forma delle aiuole, sparso paglia fresca colore dell’oro, riallineato le mezzane messe di taglio nel terreno, rinnovato le canne di sostegno per i pomodori, i fagioli, i fagiolini e le ipomee non ancora seminate. Non che l’orto fosse spoglio del tutto: le fave erano belle rigogliose, difatti si stavano guadagnando qualche scatto, come pure i cavoli neri, gli asparagi e la borragine.
Mentre Andrew Lawson scattava, Briony, pittrice e scultrice, disegnava. Mi ha lasciato due disegni bellissimi: il forno e la loggia davanti a casa viste da sotto il pero. Dal punto dove, nelle ore più calde della giornata, quelle del tutto inadatte a scattare foto, si metteva a sedere sulla sdraio accanto ad Andrew.