Introduzione a Il diario di Lo, 2018, nuova edizione
Nei sessant’anni della sua vita libera e intensa, Pia Pera ha esercitato un numero notevole di talenti, sempre tuffandosi senza risparmio nel nuovo esperimento, sempre facendo le cose nell’unica maniera in cui vale la pena di farle: come se fossero le ultime che facciamo. Così, nella mia memoria di amico di lunghissima data, si succedono tante immagini, tante configurazioni del suo carattere inconfondibile, capace di sposare la dolcezza e la fierezza, l’ironia e la compassione, lo spirituale e il quotidiano. All’epoca del Diario di Lo, che uscì da Marsilio nel 1995, conoscevo Pia già da una decina d’anni, e di strada, alle soglie dei quarant’anni, ne aveva già fatta molta. Nel 1986 aveva pubblicato per Adelphi la sua edizione della Vita dell’arciprete Avvakum, sempre citata come il più antico testo della letteratura russa. Era il punto di arrivo di un intenso periodo giovanile di studi di storia religiosa, incentrati sull’epopea dei Vecchi Credenti, strenui tradizionalisti perseguitati da Pietro il Grande. Francesco Cataluccio la conobbe in quell’epoca negli uffici della Garzanti e, in un bel ritratto (Il giardino di Pia Pera, pubblicato su «Doppiozero», marzo 2016) ricorda il suo aspetto di «signorina inglese», il suo sorriso capace di esprimere le infinite sfumature dell’amicizia, le lunghe e memorabili conversazioni a tre con quell’uomo adorabile, quell’intellettuale finissimo, anche lui grande specialista di letteratura russa, che era Mauro Martini. Nelle parole di Cataluccio, ho riconosciuto alla perfezione un clima mentale, una consorteria di persone ancora giovani, fondamentalmente disinteressate, che avevano fatto della letteratura l’elemento centrale della loro vita, e ne erano felici, al di là di qualunque carriera e di qualunque competenza. La più grande soddisfazione intellettuale, a quei tempi, sembrava consistere nella condivisione di certe esperienze supreme. È vero che si legge e si scrive da soli, ma quante cose importanti non sapremmo, se non le avessimo imparate dagli amici? Ogni volta che dormivo da Pia nella sua casa di Milano, a via Archimede, mi portavo via qualcosa che non avrei più dimenticato: tra le prime cose che mi vengono in mente, ci sono le memorie di Nadežda Mandel’štam, la bellissima Storia della letteratura russa del principe Mirskij, L’energia dell’errore di Viktor Šklovskij. Ancora non lo sapevamo, ma quella si avviava ad essere l’ultima epoca epistolare della storia umana. Pia usava sempre bellissime carte da lettere, che comprava a Londra. Roma e Milano erano molto più lontane di oggi, e scrivendoci ci tenevamo informati sui fatti della vita, sui libri letti, sullo stato di avanzamento dei nostri lavori. Rileggendo alcune di queste lettere, ritrovo le tracce di qualche infelicità sentimentale (Pia è stata decisamente più fortunata con gli amici che in amore), ricette per biscotti, deliziosi pettegolezzi, lunghi frammenti della sua traduzione dell’Onegin, che risale alla stessa epoca del Diario di Lo. Così, arriviamo direttamente a Nabokov, considerato come l’autore di Lolita ma anche come il geniale traduttore in inglese e acutissimo commentatore del poema di Puškin, libero da ogni pastoia accademica, da ogni ipocrita atteggiamento di soggezione. Lavorando con scrupolo, chiedendosi sempre se era possibile fare meglio, non accontentandosi mai di ciò che le appariva troppo facile, Pia si dedicò intensamente a una duplice impresa letteraria, che consisteva nel cercare una lingua per l’Onegin e una lingua con cui dar voce al punto di vista di Lolita, rovesciando come un calzino, se così si può dire, il più famoso dei romanzi di Nabokov. L’esperimento, insomma, era molto complesso, e comportava un ingente investimento di energie creative e intellettuali. A rileggere la traduzione e il romanzo a distanza di vent’anni, possiamo facilmente constatare come Pia avesse, in entrambi i casi, fatto centro. Il suo italiano possiede già quella naturalezza, quella malizia, quel senso dell’espressione più adatta alla cosa evocata, che tanti lettori apprezzeranno, molti anni dopo, nei libri dedicati alla filosofia del giardino (definizione riduttiva, per inciso: come il Walden di Thoreau, gli ultimi libri di Pia sono dei trattati sulla libertà, l’autonomia, la solitudine dell’essere umano. Possono essere amati di per sé, anche da persone che non hanno mai nemmeno innaffiato una piantina di basilico). Per concentrarci sul Diario di Lo, bisognava ottenere una credibilità stilistica ancora prima che psicologica. Nella narrativa, la forma diaristica è tutt’altro che facile, e nel caso specifico del personaggio di Lo bisogna fare i conti con la necessità di un’espressione che è certamente scritta, ma deve evocare in maniera costante l’oralità – quella che Roland Barthes chiamava la «grana della voce». Mi ricordo che ne parlammo a lungo, durante un periodo che tutti e due abbiamo trascorso a Parigi, tanto che fra tutti i libri di Pia, il Diario di Lo è quello di cui ricordo meglio la faticosa elaborazione. Qualche anno prima del Diario, aveva pubblicato un libro notevole di racconti, alcuni dei quali sorpresero per il loro piccante erotismo, intitolato La bellezza dell’asino, ma questa volta voleva alzare l’asticella, mobilitare risorse inventive accumulate nel tempo, che sentiva di non aver mai ancora utilizzato. L’obiezione che le opponevo la infastidiva e la preoccupava. In maniera troppo idealistica, percepivo un forte rischio estetico in un libro derivato da un altro libro. Insomma, una persona del tutto ignara del romanzo di Nabokov, in che modo avrebbe potuto comprendere il libro di Pia ? Non c’era il rischio di gravare l’ispirazione di una specie di zavorra, costringendosi a scrivere un’opera che allude costantemente a un’altra opera ? Pia la vedeva in maniera del tutto diversa. Considerava quella di Lolita alla stregua di una vera e propria mitologia: una creazione che in qualche modo ineluttabile e misterioso si è affrancata dalla sfera individuale, e che appartiene al mondo, alla percezione comune come un aspetto del paesaggio, una tradizione millenaria, un proverbio. Di questo mito, esiste senza dubbio una versione privilegiata, che è quella che Humbert Humbert, nella finzione di Nabokov, affida al suo memoriale scritto in prima persona. Ma si tratta, appunto, di una versione: con tutta la sua irraggiungibile bellezza, non può esaurire la storia, trasformandosi in un recinto oltre il quale non c’è nulla di lecito o di possibile. Al contrario, la stessa esistenza di un punto di vista così soggettivo com’è quello di Humbert finisce necessariamente per evocare la possibilità di altri punti di vista. Se una cosa è latente, non per questo è inesistente, come il libro di Pia si incarica di dimostrare dando corpo al racconto opposto e complementare a quello di Humbert, il racconto di Lolita. Può sembrare azzardato, ma non scorgo in questo modo di agire la minima traccia di un intento dissacratorio o parodistico. A Pia non interessava affatto una specie di rovesciamento «femminista» della prospettiva maschile del capolavoro di Nabokov – questa potrebbe essere al massimo una conseguenza secondaria dell’operazione. Quello che perseguiva era il prodigioso effetto di realtà che scaturisce dal giustapporsi delle interpretazioni della medesima vicenda, come accade in certi capolavori della letteratura (Lord Jim) o del cinema (Quarto potere, Rashomon) da lei molto amati. Era un procedere nel solco di una poetica dello straniamento assimilata nello studio di Šklovskij e dei formalisti russi – una poetica che è di necessità fondata su un atteggiamento di relativismo assoluto, per nulla turbata da scrupoli di correctness. Come il lettore potrà apprendere dalla risentita appendice al romanzo, questa esperienza così consapevole e raffinata fu come un sogno turbato da un brusco, prosaico risveglio. Altro che Rashomon! Pia aveva fatto, in totale buona fede, i conti senza l’oste. Quella mitologia che aveva riconosciuto in Lolita era pur sempre coperta dal diritto d’autore! Ne seguirono cause, litigi, accordi umilianti. Come si potrà vedere, fu una vicenda molto istruttiva, capace di suggerire molte riflessioni sul lecito e l’illecito nella scrittura d’invenzione. Ma per Pia fu un’esperienza molto amara. Cataluccio ritiene che il contenzioso la indusse ad abbandonare la scrittura narrativa. Di sicuro, era una persona troppo limpida, troppo onesta, troppo idealista per tollerare un sospetto di disonestà e di appropriazione indebita. Si sentì anche poco sostenuta nella sua battaglia per i diritti dell’immaginazione. Ci rimase male, come sempre quando il mondo si rivelava eccessivamente più gretto dei suoi sentimenti. C’è da dire che Pia, se assomigliava a un signorina inglese, era anche un gatto, intenzionato a vivere le sue nove vite. Poteva soffrire molto, ma aveva anche la leggerezza e l’agilità necessarie a sgusciare via da un passato in cui non si riconosceva più. Come tutte le persone che non si arrendono nella ricerca più difficile che esista, che è la ricerca di sé stessi, imboccò nuove strade, che la portarono dove lei nemmeno poteva immaginare. Ma tra le tante cose preziose che si è lasciata dietro, questo Diario di Lo merita ancora di trovare nuovi lettori.