Stefano Velotti

Intorno a Pia

Tratto dal piccolo catalogo della mostra di Maria Cristina Vimercatiottobre 2016

Credo che il breve testo scritto da Pia Pera per questo catalogo sia stato il suo ultimo. L’ho ricevuto per email meno di due settimane prima che morisse, con questa avvertenza: “ho abbozzato questa cosa che ti mando, non so se poi la cambierò un po’ ma l’idea di base credo resterà quella”. Il testo consiste in una citazione dai diari di Tolstoj, in cui si contrappongono due modi di esperire la natura: il primo come un oggetto, un panorama distante da ammirare, l’altro come “un infinito e bellissimo intero” di cui sentirsi parte. Pia avverte nelle fotografie del suo giardino scattate da Maria Cristina Vimercati questa seconda dimensione: un sentire di far parte della natura, “il desiderio di immergervisi con tutto il nostro essere”. L’ultima parola, prima del punto, è “vita”: “il nostro antico cercare, tra le piante, la vita”.
Cesure più o meno nette, più o meno inevitabili, costellano la vita di tutti. Un lasso di tempo, lungo o breve, in cui qualcosa muore e qualcos’altro si annuncia. Da anni Pia esplorava forme di pensiero che chiamiamo “orientali”, benché sempre lontana da ogni deriva new age. In un racconto del 1997, che inizia con l’immagine dell’Arcangelo Michele che sconfigge il Drago, Pia ricordava quando le ali dell’Arcangelo che domina Lucca furono sfilate per un restauro: “Con l’Arcangelo così spennato scompariva la certezza che l’eterna tenzone con il Drago non si sarebbe mai risolta in una sconfitta. Possibilità inconcepibile in un simbolo cristiano, che non prevede le supremazie alterne del Tao: lì ciascuna delle due energie opposte e complementari contiene al suo interno, minuscolo, il germe dell’altra. Lo splendore massimo di ciascuna forza contiene in sé il principio del suo contrario. È un continuo crescere e decrescere reciproco. Contemplare il moto vorticoso delle coppie degli opposti lascerà imperturbati: il momento più buio dell’inverno coincide con la prima avvisaglia d’estate, e viceversa”.
“E viceversa”, appunto. Quando l’avvisaglia della malattia si è trasformata in verosimiglianza e poi in certezza, Pia – come chiunque si trovi in una situazione analoga – non ha certo potuto restare “imperturbata”, ma ha dovuto affrontare angosce crescenti, riuscendo poi, faticosamente, a trovare germi di vita anche a partire dalla sua nuova, terribile condizione di malata di sclerosi laterale amiotrofica: la sua mente, in tutta la multiforme vitalità – con la sua intelligenza, la sua cultura, la sua ironia e impertinenza, i suoi affetti e memorie – perdeva progressivamente l’originaria solidarietà con il corpo, diventandone la prigioniera. Come se la ferocia di questa malattia nel privare la mente di ogni padronanza sui movimenti del corpo non bastasse, la legge italiana – con divieti ipocriti, dispotici e crudeli – priva il malato anche della residua capacità decisionale sulla propria vita. E, come Pia ha ripetuto più volte – con il suo garbo e la sua franchezza – contribuisce a rendere l’Italia un paese incivile: “Un paese civile – infatti – è quello in cui non viene negato l’accesso all’ultimo farmaco, in cui non si è costretti a impiegare sotterfugi e ingenti somme di denaro per procurarsi quello che non si nega agli animali domestici”.

Delle tante vite sperimentate da Pia ne conosco qualche porzione, fin da quando era (quasi) una trentenne spavalda e maldestra, brillante e insopportabile, anticonformista e generosa, ma l’ultimo segmento della sua esistenza ha svelato in lei risorse che non ritenevo attingibili.
L’avevo conosciuta fugacemente a Roma, all’inizio degli anni ’80, giovane e apprezzata slavista che stava curando l’edizione italiana di un libro difficile e raro, la Vita dell’arciprete Avvakum, per una casa editrice così snob e lontana quale era Adelphi. Nata a Lucca, portava con sé nella pigra capitale vortici di altri mondi – aveva studiato in Inghilterra, aveva vissuto e fatto ricerca a Mosca, con la vicinanza di quella che resterà la sua amica più amata, Vera -, muovendosi a suo agio tra relazioni e orizzonti che a me apparivano affascinanti e inaccessibili. (Come capita qui da noi, non è bastata la sua bravura, la stima di cui godeva in studiosi affermati, per darle un degno accesso all’università italiana).

Qualche anno dopo ci ritrovammo a Milano a lavorare nella stessa casa editrice. Ero felice che Livio Garzanti avesse deciso di assumerla, ma gli chiesi di poter restare a lavorare da solo nella mia stanza. Naturalmente Garzanti, che aveva il gusto degli esperimenti umani in vivo, non perse l’occasione per fare il contrario: fece aggiungere un tavolino accanto alla mia scrivania e lo assegnò a Pia. Lei era sempre al telefono, in diverse lingue e per le ragioni più disparate, e rideva fino alle lacrime per lo spettacolo del mondo che gli arrivava nella cornetta da persone e paesi vicini e lontani, anche quando si trattava di questioni per lei dolorose. Spesso la sua esuberanza mi esasperava, e allora storpiavo il suo nome in “Piastra” (al peggiorativo intendevo aggiungere l’assonanza con “impiastro”), cosa che suscitava in Pia uno sconcerto divertito e ritorsioni linguistiche. Col tempo, quel nomignolo stupido e le sue ritorsioni erano diventati un segno affettuoso di riconoscimento, quasi parole d’ordine per ricordare la nostra amicizia.
Livio Garzanti richiedeva ai suoi dipendenti un certo servilismo, ma disprezzava chi assecondava il suo desiderio e si rianimava se lo vedeva trasgredito. Il gusto di Garzanti per le trasgressioni di Pia, però, si esaurì presto.
Più Garzanti si irritava e più Pia insisteva nei suoi atteggiamenti eccentrici, talvolta recitando toni da gran dama di altri tempi (con Piero Gelli, allora direttore editoriale, colto e millantatore, prendemmo a chiamarla con sussiego “Madame Poire”. Quando, recentemente, ho conosciuto la madre di Pia, Elvira – filosofa, allieva di un maestro come Luigi Scaravelli – ho pensato che, mischiati a quell’atteggiamento un po’ teatrale, c’erano i tratti autentici, trasmessi di madre in figlia, di una civiltà gentile, arguta e un po’ austera, aliena ai modi sguaiati della “Milano da bere” di quegli anni, e alle sbracature romane che ben conoscevo). Ma questo stesso atteggiamento era anche una delle maschere della sua generosità: a me – sempre in rosso – ha prestato più volte del denaro, insistendo che lo accettassi perché, diceva, “bisogna sempre avere il denaro per fare dei regali”, e mi elargiva citazioni preziose e bellissime (ne ricordo ancora una da Auden, della cui saggezza non sono però del tutto convinto: “If equal love cannot be/ let the more loving one be me”).
Le uniche situazioni in cui Pia si avvicinava a una sorta di devozione servile era quando si invaghiva di amiche che lei considerava più belle e avvenenti, e su cui proiettava il suo desiderio intermittente di essere una femme fatale. In quel periodo imitava spesso la Marlene Dietrich dell’Angelo azzurro, cantando e recitando, con grande espressività, “Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt… Und sonst gar nichts”. Amava il cabaret e il teatro del mondo, e si divertiva quando i suoi attori – a volte capricciosi e dispotici, come l’ingombrante padre giuslavorista rievocato in alcune sue pagine surreali e precise – inscenavano le gag più assurde.

A Milano sono iniziate o si sono consolidate tante amicizie comuni: rievocando adesso quei tempi con alcuni dei tanti amici di allora, quegli anni ci sembrano talvolta felicissimi, ma la loro bellezza era forse solo “la bellezza dell’asino” (come Pia ha intitolato la sua prima raccolta di racconti).
Questo capitolo finì quando Livio Garzanti – consumato il suo consueto ciclo di curiosità, esaltazione, sospetto, irritazione e sprezzo che esercitava a turno verso le sue “scoperte” – lasciò che Pia si allontanasse, mentre io abbandonai l’Italia per quasi un decennio. Al mio ritorno andai ad abitare vicino a Lucca, dove anche Pia si era trasferita. E lì iniziò una nuova porzione delle nostre vite: quando la rividi stava combattendo un’assurda battaglia legale con il figlio di Nabokov (per il suo romanzo Diario di Lo – una sorta di Lolita scritto da Lolita – da cui uscì semisconfitta e amareggiata: la traduzione inglese del libro dovette essere ritirata). Le coordinate di un tempo non valevano più, Pia sperimentava nuove strade: lessi un suo libro sulla comunità di Longo Maï, verso cui aveva nutrito speranze che risultarono malriposte, e poi una sera a Roma mi volle far conoscere Gianna Nannini, per la quale aveva scritto i testi di Pia come la canto io, ispirati alla figura dantesca di Pia de’ Tolomei, mentre ormai era cresciuta e consolidata la sua passione per i giardini. Quest’ultima mi sembrava una delle metamorfosi della sua maschera di gran dama – occuparsi di giardini andava di moda tra gli stranieri colti della Lucchesia divenuti signorotti di campagna, e mi rintronava di nomi di piante, fiori, alberi e frutti dimenticati, con preoccupazioni per la vita dei lombrichi e delle api, di maestri giardinieri dai nomi esotici e impronunciabili, tra buddisti taoisti induisti e vivaisti, diventati nel suo universo veri maestri di vita e di saggezza. Confesso che non riuscivo a condividere queste passioni, anche se mi incuriosivano: ma ero troppo impaziente e disattento per capire perché fossero così importanti la rosa Rambling Rector, le rutacee o gli hamamelis, per non dire del Rubus phoenicolasius o dello Zanthoxylum simulans (già più intrigante, almeno nel nome), a cui però nella mia mente non corrisponde quasi nulla. Quanto alla meditazione e agli altri esercizi di attenzione che Pia praticava, mi sembrava di non averne il tempo, salvo forse mentre guidavo per ore in autostrada, essendo Lucca lontana da tutto. Il suo giardino accuratamente selvaggio mi piaceva. Ma non riuscivo a condividere con lei quella dedizione panica e costante al mondo vegetale. Pia mi sopportava ugualmente, forse con indulgenza, ed era sempre pronta ad aiutare e accogliere calorosamente me, come tutti i suoi amici vecchi e nuovi, a preparare cene squisite e austere con i frutti del suo orto, a spandere regali e affetto. E continuava a esser preda di infatuazioni imprevedibili e dubbie.

Poi, con parole che non dimenticherò mai e che aprono il suo ultimo, bellissimo libro, accadde che “un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo”. Non dirò molto altro di Al giardino ancora non l’ho detto, un libro che vale la pena leggere e rileggere. Voglio però sottolinearne solo un aspetto. Dicevo che Pia era eccentrica e anticonformista, generosa e pronta a ridere del teatro del mondo.
Ma sapeva anche essere un po’ dispotica e padronale. Nonostante la conoscenza e l’adesione a tradizioni sapienziali di riduzioni dell’io, della volontà, del peso delle proprie intenzioni, del controllo sul mondo, sugli altri e su se stessi, Pia – con la sua intelligenza, i suoi pallini e la sua acutezza critica – spesso spadroneggiava. Le cose dovevano essere fatte a modo suo, e le persone che la circondavano dovevano rispondere a certe classi di esigenti requisiti, a volte discutibili. Di qui anche certe sue preferenze che mi lasciavano incerto, certe virate che, a torto o a ragione, mi sembravano sbandate. Se Pia è riuscita a trovare un germe di vita nella più crudele delle malattie, forse è questo: lo sgretolamento dell’illusione padronale, la chiarezza sulla nostra condizione di non essere padroni di niente. Questa consapevolezza è, per un verso, terrificante: “Ho perso il filo di me stessa”, ha scritto. E spesso torna nel libro il dilagare della paura. E come potrebbe essere altrimenti? Pia detestava le edulcorazioni. Ma poi, specie nelle conversazioni con David Plante riportate nel libro, emerge l’ambiguità di quel terribile pharmakon che guarisce e avvelena. In molti passi torna insistentemente la strana dolcezza di ciò che accade senza essere guidato da intenzioni: “Christian atheist”?, chiede a David. “Sì, nel dire ‘credente’ c’è troppa intenzionalità”. E commenta: “Pensiero profondo. Riguarda anche l’arte, lo scrivere. L’intenzione è pretenziosa, l’intenzione è non sapere andare oltre il proprio io”. E sempre nella prepotenza dell’intenzione trova il limite della poesia di Yeats, che risulta “retorica in quanto costretta da complicate intenzioni […] Nel momento in cui nulla conta più tanto perché nulla possiamo più decidere, in questo ritrarsi, c’è anche dolcezza”; e di nuovo: “Torna la sensazione di essere un legnetto in balia delle correnti, ma non è negativa, ha qualcosa di dolce […] Che non sentirsi così intensamente padroni di sé emancipi dal padrone più duro, il proprio io? O sto solo facendo buon viso?”.
Insieme a questa emancipazione interrogativa, a questo abbandono sempre onestamente incerto, c’è la perdita dolorosa dell’illusione di essere un’eccezione: “Mi torna spesso in mente quella signora a cui non ho voluto dare più spazio, di cui non ho voluto sapere di più, da cui ho cercato di stare il più lontana possibile, indignata che qualcosa di tanto spaventoso potesse accomunarci. Io, come lei? Impossibile. Inconcepibile”. (Leopardi, sempre più amato e compreso da Pia, pensava che crescere significa non considerarsi più un’eccezione). Naturalmente avremmo tutti preferito che questa consapevolezza potesse trovare altre vie per farsi strada, o anche non trovarne affatto, ma è andata così.

Infine, per tornare al punto di partenza, non c’è forse un commento più appropriato a queste fotografie che Maria Cristina Vimercati ha fatto del giardino di Pia – intuite sentite e realizzate con maestria e amore – delle stesse parole del suo giardiniere. Pia, infatti, mi ha mostrato con gioia, e quasi con un orgoglio personale, alcune di queste fotografie del suo giardino che Maria Cristina aveva dimenticato a casa sua. Il “nostro antico cercare, tra le piante, la vita”, non è solo il desiderio esausto di rifluire nel regno della materia, privo di tensioni e squilibri (questa, infatti, è per noi la quiete della morte), ma un’immagine di cura, di accudimento: “Comincio a somigliare sempre di più a una pianta di cui bisogna prendersi cura, divento sorella di tutto quanto vive nel giardino, parte di questa sconfinata materia di cui ignoro confini e profondità”.

Mi sembra di ritrovare, alla fine di questo breve percorso – forse troppo personale e certamente molto parziale – la sua vicinanza a Tolstoj, dal cui diario Pia cita un brano nel suo ultimo testo. Una vicinanza che risuona nell’ultima pagina di Al giardino ancora non l’ho detto, quando Pia ricorda l’ultimo incontro con la sua amica Vera. In quella pagina c’è il Tolstoj del suo racconto più bello, La morte di Ivan Ilijc. Nel suo lento e tormentato morire, Ivan Ilijc trova infine conforto solo nella spontaneità e nell’affetto di un ragazzo semplice, Gerasim. E Pia, per alcuni versi, sembra fargli eco con la compagnia della sua amica: “Nessuno mi commuove come Vera. Il suo ne ponimaju [“non capisco”, in russo] mi è più vicino dell’efficienza delle persone ‘in gamba’. Nel suo ne ponimaju trovo me stessa, il mio smarrimento di fronte alla mancanza di cuore, a tutto quanto è impersonale e arido, furbo e spietato. Ne ponimaju è rifiuto di un’intelligenza che presume di prescindere dalla bontà, dall’affetto, dall’animalità di Macchia [l’ultimo cane di Pia], dal suo calore e dalla sua simpatia. Ne ponimaju è scelta di un altro capire, sete di un non sapere che è mantenere il cuore vuoto, sgombro dalle cianfrusaglie, colmo di solo amore”.