Una Città n° 239 / 2017 maggio
È abbastanza raro che uno scrittore raggiunga la sua maturità personale e quella, diciamo così, professionale nello stesso momento della vita. Vivere e scrivere, di solito, non vanno molto d’accordo e il problema è che non viaggiano affatto in parallelo. “Ripeness is all” è certamente un verso meraviglioso, ma non sono così sicuro che dica la verità, o almeno una verità valida per tutti. La maturità umana può anche segnare lo spegnersi dello spirito creativo, l’assestamento al centro della vita dovuto alla saggia rinuncia a frequentarne gli estremi, o al venir meno delle forze per farlo. Ci sono infatti grandi scrittori rimasti per sempre immaturi, e questa specie di eterna adolescenza costituisce lo splendore delle loro opere o addirittura, come nel caso di Witold Gombrowicz, un vero e proprio programma, un ideale ricercato, una poetica. “Adulto? mai!” scriveva Pasolini nel famoso attacco di una sua poesia.
Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non matura – resta sempre acerba…
Pia Pera, quando la conobbi, era una giovane donna sfrontata e capricciosa. Eccessiva nel suo modo di pensare, di parlare, di ridere e anche di intrecciare un’amicizia, qual è stata anche la nostra per lunghi anni. Con ogni aspetto anche minore della vita sembra voler ingaggiare un duello, una battaglia, dagli accenti ora drammatici ora consapevolmente comici, vale a dire recitati, esagerati, esasperati, e dunque struggenti, come una specie di Cyrano de Bergerac. Non avrei proprio detto che fra le sue qualità vi fosse quella della misura, sempre che sia una qualità e non un limite. Spingeva così spesso e così a lungo sul pedale dell’entusiasmo, da prendere delle cantonate colossali, soprattutto nella delicata materia del capire chi sono gli altri davvero, e cosa vogliono, e soprattutto cosa vogliono da te. Tra chi l’ha conosciuta di persona, è rimasta proverbiale la sua risata esplosiva, così incontrollabile e folle che poteva esprimere una gamma intera di emozioni molto diverse tra loro: dall’ilarità piena, pura, infantile, al piacere surreale dettato dall’insensatezza della vita, all’intelligenza bruciante e amara delle cose. Poteva mascherare la paura di mostrarsi sofferente e indifesa, oppure a lanciare una sfida intellettuale. Talvolta quella sua risata suonava persino minacciosa, e fastidiosa. Come ha scritto di lei Stefano Velotti, la caratteristica che più colpiva della giovane Pia era la sua “impertinenza”. Una parola che riassume due significati contigui: l’essere fuori luogo, inopportuni, appunto, non pertinenti, illogici, incongrui ma appunto per questo essere liberi, coraggiosi, anticonformisti, sbarazzini, pungenti, maliziosi eppure ingenui, come può essere un ragazzino o una ragazzina, e quasi mai un adulto.
Ebbene, i gusti di Pia, i suoi giudizi, le sue iniziative, i suoi gesti erano spesso impertinenti.
Ora, potete immaginare come sia singolare e persino strano che questa battagliera figura dell’irrequietezza e della stravaganza, che era la giovane Pera nella prima metà della sua vita, si sia tramutata nella seconda parte nell’immagine stessa della saggezza e della quiete, o quantomeno della ricerca di esse, della via che può, forse, lentamente, condurvi. E questo non solo negli ultimissimi anni, immersi nel crepuscolo di una malattia, la SLA, tremenda eppure da lei vissuta con un ironico savoir-faire che forse nemmeno le martiri e le sante possedevano, ma ormai da molto tempo, cioè dalla grande scoperta a cui si deve questo che appare come uno spettacolare rovesciamento esistenziale: la scoperta dell’orto, e del giardino.
Dico che questo sembra un rovesciamento perché, in realtà, nel momento in cui si avvia per il suo cammino iniziatico (il punto decisivo di svolta è la pubblicazione del libro, bellissimo, L’orto di un perdigiorno, nel 2003, una rivelazione per molti che si interessavano dell’argomento, ma ancora di più per me che mai avrei immaginato la mia nevrotica, cosmopolita e imbranata amica alle prese con la zappa, il concime, le piante, le radici, la lentezza e la pazienza connaturate a quell’esercizio…), Pia non si lascia affatto alle spalle il suo carattere balzano e curioso (quello della volpe, secondo la famosa definizione coniata da Isaiah Berlin) ma ne incanala le energie fino ad allora disperse un po’ ovunque in una filosofia pragmatica, fisica, terrestre, praticabile ovunque e da chiunque abbia un metro quadro di terra da lavorare, o, piuttosto, da contemplare. È come se lei dicesse: se a questa visione e a questa pratica sono approdata io, per come sono fatta, per quello che ero fino adesso, per la vita che ho condotto sin qui, vuol dire che a tutti la medesima possibilità è concessa, la medesima strada è aperta. A tutti. La parabola non poteva essere più chiara.
Ed è appunto qui che la maturità della persona e della sua scrittura si incrociano e si appaiano, per non separarsi più, con risultati sempre elevati e sorprendenti, fino all’ultimo libro pubblicato in vita da Pia, il diario del congedo, il meravigliosamente equilibrato e commovente Al giardino ancora non l’ho detto, il cui titolo è tratto dal primo verso di una poesia di Emily Dickinson, “I haven’t told my garden yet”. Se fino alla scoperta del giardino il talento letterario di Pia Pera si era esercitato in modo spavaldo e senza limiti (cito come unici esempi il lavoro sull’Onegin di Puškin, di gran lunga la più disinvolta e leggibile traduzione del romanzo in versi in lingua italiana, e il paradossale rovesciamento di Lolita di Nabokov, raccontato dal punto di vista di lei, Il diario di Lo), ora quel modo estroso di spaziare e sperimentare nervosamente in ogni direzione trova il suo esatto rovescio, ma anche il suo compimento, nella scrittura di libri che hanno finalmente trovato un mondo esemplare, un luogo assoluto e al tempo stesso in perenne mutazione, dove le avventure sono incessanti anche se quasi impercettibili, e tutto può essere raccontato con il medesimo tono: delicato, ampio, avvolgente, al tempo stesso partecipe e distaccato, magistrale. L’ironia giovanile non è stata deposta ma è salita di livello, trasformandosi in una lezione permanente sulla precarietà delle cose e delle persone. Si tratta del mondo incantevole ma anche sottilmente crudele del giardino: cioè il luogo della continua metamorfosi. Modellata secondo le forme organiche della crescita e della decadenza, riprodotte fedelmente nell’andamento della prosa che le descrive, la scrittura di Pia assume la stessa identica cadenza della sua vita, senza più ricorrere allo scarto brusco dell’invenzione narrativa, della finzione che vorrebbe sorprendere a ogni costo. La forma di questi libri è infatti perlopiù diaristica: segue senza discostarsene l’andamento sinuoso e svagato del tempo, delle stagioni, della pigrizia e degli improvvisi entusiasmi e fallimenti e tentativi e delusioni, nell’ordine sparso in cui si presentano realmente nella vita, dove le giornate si susseguono belle o brutte o semplicemente così come sono, risparmiate da ogni giudizio, irripetibili.
È interessante come la forma sapienziale a cui pagina dopo pagina si avvicina questa curiosa forma di saggistica, che si spinge ben oltre l’argomento botanico di cui sembra quasi esclusivamente occuparsi, si esprima non nel giudizio bensì nella sua progressiva sospensione. Man mano che si avanza nella trattazione, le cose si fanno più incerte, mostrate nel loro rovescio, le convinzioni appaiono in tutta la loro labilità, il mondo intero diventa cangiante e flessibile, aperto a ogni combinazione. Le possibilità, letteralmente, fioriscono moltiplicate intorno al ramo della realtà, per poi appassire.
Nella persona matura che Pia Pera è diventata attraversando le stagioni del suo giardino c’è in verità ancora molto della capricciosa e curiosa bambina di una volta, della Alice in Wonderland che ficcava il naso dappertutto. Ritroviamo questo spirito, intatto, in molte delle pagine de Al giardino ancora non l’ho detto: anche mentre racconta della sua malattia, che poco alla volta la immobilizzerà, con un sorriso che serve a disinnescare la paura, e a evitare ogni lamento, Pia Pera non rinuncia mai a mostrare il lato comico, lievemente assurdo, dolcemente ridicolo del suo stesso affannarsi per aver salva la vita: provando nuove cure, sperimentando metodi strampalati di curatori e sciamani di ogni tipo. La sua saggezza, infatti, non è nell’aver rinunciato alle illusioni, ma nel raccontarne così serenamente il disincanto dopo averlo vissuto comunque con dolore.
È come se il viso di questa donna, e i suoi occhi luminosi, fossero capaci di trasmettere al tempo stesso una grande e composta tristezza, e una indomabile allegria.